Non è facile affrontare il tema della legalità, aspetto tornato prepotentemente alla ribalta delle cronache e che pensavamo, se non sconfitto, almeno ridimensionato dalle inchieste che a suo tempo avevano fatto molto scalpore.
Di fronte a questa parola il pensiero corre subito ai grandi fatti di corruzione e di malaffare che imperversano nella vita sociale e che contribuiscono a diffondere un senso di sfiducia e di diffidenza verso le istituzioni e di quanti operano in esse. Ma come non ricordare che si tratta di una pratica diffusa, che investe la vita quotidiana di molti cittadini, e verso la quale siamo molto tolleranti, se non pronti a trovare giustificazioni?
È in questo humus che mettono radici e crescono rigogliosi quei fatti di fronte ai quali siamo pronti a scandalizzarci e puntare il dito.
Un humus alimentato da una cultura individualista, tutta protesa alla ricerca dell’interesse personale, che non ha per niente a cuore il bene comune. Che si nutre della convinzione, spesso alimentata ad arte da quanti cercano facili consensi elettorali, che le istituzioni sono «nemiche» dalle quali occorre ed è giusto difendersi. Che sparge a larghe mani la sfiducia nell’azione politica, con la facile affermazione che quanti operano in essa «sono tutti uguali» e non pensano ad altro che a curare i propri interessi, magari poi ricorrendo ad essi per avere favori, alimentando un clientelismo che non fa che perpetuare ciò di cui ci si lamenta.
Si tratta di un fenomeno di fronte al quale la comunità cristiana non può sentirsi estranea e che i Vescovi hanno richiamato con forza in tre successivi documenti, intitolati «Educare alla legalità» (1991), «Stato sociale ed educazione alla socialità» (1995), «Educare alla pace» (1998). Sembra però senza molto successo, visto il velo di silenzio che nelle nostre comunità è stato steso su questo tema.
Qual è, dunque, il compito di una comunità cristiana a questo riguardo? Come operare perché questi aspetti diventino parte integrante della formazione delle coscienze, compito primario di una comunità credente?
Quali strade percorrere per crescere nella convinzione che l’impegno per la costruzione di una convivenza più giusta e rispettosa di tutti è una forma alta di carità evangelica, come spesso ci è stato ricordato dai nostri pastori?
Accenno al riguardo solo a qualche aspetto, che meriterebbe però di essere sviluppato con più cura e competenza.
Mi sembra, in primo luogo, che una comunità cristiana possa essere significativa al riguardo soprattutto attraverso il suo stile di vita, fatto di limpidezza e di rispetto delle leggi in tutti gli ambiti in cui opera. Anche quando questo può rivelarsi oneroso. Senza cercare alibi o giustificazioni nel fatto che quanto si fa è al servizio degli altri, in particolare dei poveri. Senza un comportamento irreprensibile, e spesso contro corrente, anche i richiami più forti finiscono per cadere nel vuoto e non essere credibili.
In secondo luogo si tratta di recuperare un senso alto dell’azione politica, prima espressione di solidarietà, come ci ricordava don Milani: «Sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è far politica». È quindi importante non indulgere ad analisi superficiali o a facili slogan, come pure non assecondare la sfiducia dilagante nei confronti delle istituzioni. Collaborando con esse per il bene comune, evitando collateralismi ma anche quelle prese di distanza che hanno il sapore dell’indifferenza. Impegnando forze ed energie per formare credenti che sappiano testimoniare in questo campo l’amore cristiano collaborando con tutti gli uomini di buona volontà, senza preclusioni ideologiche. Ed accompagnando quanti si spendono in questi campi difficili, perché non si sentano soli o, peggio, ai margini della comunità.
Ma soprattutto aiutando a comprendere che non c’è amore cristiano senza far proprie «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, soprattutto dei poveri e di coloro che soffrono» (cfr Gaudium et spes n. 1). Uscendo quindi dalle nostre cerchie ristrette, dalle nostre piccole preoccupazioni, per andare verso le «periferie», come non si stanca di ricordarci papa Francesco. Scoprendo che non c’è futuro per le nostre comunità se non prendendoci a cuore il futuro della nostra società e di tutti i nostri fratelli.
Ed infine riprendendo con coraggio la formazione di un laicato che sappia spendersi per l’edificazione di una società più giusta e solidale, nel confronto e nella collaborazione con tutti. Superando quella tendenza in atto a rinchiudersi nella gestione di cose «ecclesiastiche», nell’organizzazione della comunità cristiana, considerando l’impegno nel mondo come qualcosa di estraneo alla testimonianza e alla vocazione credente. Con il rischio di diventare insignificanti e incapaci di testimoniare al mondo la grande passione che Dio nutre per la vita e la piena realizzazione di ogni uomo. Parola capace di farsi udibile a tutti.
Mentre si fa sempre più chiara per la Chiesa la coscienza che si apre la stagione di una «nuova evangelizzazione», occorre non dimenticare che questa non potrà avvenire senza il contributo di uomini e di donne che nei luoghi della vita quotidiana e nella compagnia degli uomini sanno far risplendere la bellezza della vocazione cristiana.
«È l’ora dei laici», ha detto molti anni fa un papa, Pio XI. Oggi percepiamo con acutezza la verità e l’urgenza di questa parola. Sapremo cogliere con prontezza e con gioia l’invito di Gesù, quando affermava: «Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12, 56-57).
Don Flavio Grendele